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Letture.org intervista Carlo Di Giovine

 autore di "Metafore e Lessico della Relegazione. Studio sulle Opere Ovidiane dal Ponto"

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Prof. Carlo Di Giovine, Lei è autore del libro Metafore e lessico della relegazione. Studio sulle opere ovidiane dal Ponto edito da Deinotera: quali opere compose il poeta latino durante il suo esilio a Tomi?
Ovidio fu relegato a Tomi nell’8 d. C. con un decreto di Augusto. Due, come egli scrive, le cause che portarono a questo provvedimento: un carmen, cioè i libri dell’Ars amatoria poco compatibili con l’intento moralizzatore del princeps, e un error, cioè l’essere stato inconsapevole e incolpevole testimone oculare di una situazione sgradevole in qualche modo coinvolgente l’entourage di Augusto. A Tomi pubblicò entro l’anno 12 d. C. i cinque libri di elegie dei Tristia e successivamente quattro libri di Epistulae ex Ponto: mentre le elegie dei Tristia non recano i nomi dei destinatari – per motivi di prudenza, a breve distanza dal provvedimento di Augusto -, i nomi compaiono nelle elegie delle Epistulae ex Ponto. Al periodo dell’esilio appartiene anche l’Ibis, un poemetto contro un ignoto nemico, uno dei personaggi che a Roma si accanivano contro il poeta di Sulmona nel tentativo di procurargli ulteriori danni.

Quale importanza riveste la poesia della relegazione per la comprensione dell’opera di Ovidio nel suo complesso?
La poesia della relegazione costituisce senza alcun dubbio un territorio poetico ben distinto da quello delle tante opere poetiche composte da Ovidio negli anni felici e sereni anteriori all’8 d. C.; ma la ripetitività del motivo delle sofferenze della relegazione e il ricorrere ossessivo della richiesta di annullamento, o almeno alleggerimento, della pena non impediscono al poeta di mantenere un livello stilistico sorvegliatissimo che, soprattutto in alcune delle elegie dei Tristia (si pensi all’elegia trist.  1, 3, in cui egli descrive il momento della partenza da Roma verso Tomi, o anche alla celebre elegia trist. 4, 10 che costituisce la sua autobiografia), si coniuga con la freschezza dell’ispirazione poetica. Leggere le opere poetiche di Ovidio escludendo la produzione della relegazione significherebbe avere di Ovidio un’immagine assolutamente incompleta; tanto più che molti motivi dell’elegia amorosa (soprattutto nei tre libri degli Amores), quali ad esempio quello del vulnus amoroso, sono ‘riciclati’ con diversa valenza nelle opere composte a Tomi (ad esempio, il vulnus diventa quello della relegazione).

In che modo nella poesia della relegazione giungono a compimento i grandi temi della poesia ovidiana?
Se proviamo a fare riferimento all’opera più nota e più imponente di Ovidio, i quindici libri delle Metamorfosi, potremmo dire che la massiccia presenza in essa del mito e del motivo dominante del mutare delle forme compare in qualche modo anche nella produzione poetica della relegazione: il poeta è sempre pronto, in lunghi cataloghi mitologici, ad assimilare la propria sventura a quella di celebri eroi del mito, mentre il mutare delle forme diventa, nei Tristia e nelle Epistulae ex Ponto, il mutare dei luoghi (il bel clima e l’ambiente ameno di Roma che si muta in quello inameno di Tomi) e degli stati d’animo: c’è un prima e un poi, c’è la vita-vita di Roma e la vita-morte (morte civile) di Tomi. Questo è uno solo dei tanti fili che legano il prima e il dopo della poesia di Ovidio, con l’anno 8 d. C. come discrimine per la dolorosa trasformazione.

Di quali immagini fa uso il poeta per descrivere la propria disgrazia?
Ovidio per descrivere la propria disgrazia utilizza tutta una serie di metafore che fanno riferimento a situazioni negative: egli è un ‘caduto’ (spesso il richiamo è proprio al caduto in combattimento, che giace a terra e rischia addirittura di essere calpestato: fuor di metafora, Ovidio si riferisce ai nemici del poeta che cercavano di rendere addirittura peggiore la sua situazione di relegato, magari con la confisca dei beni), egli è un ‘ferito’ (la ferita della relegazione, che i nemici cercano di riaprire, fa comunque molta fatica a cicatrizzare), un ‘fulminato’ (colpito dal fulmine di Giove-Augusto), un ‘naufrago’ (che si aggrappa alle poche tavole di legno dell’imbarcazione distrutta), un ‘malato’, addirittura un ‘morto’ (la sua morte civile precede la morte fisica, avvertita in ogni caso come non troppo lontana).

A quali temi e paradigmi mitici attinge Ovidio nelle sue opere dal Ponto?
Ovidio ama assimilare la propria situazione a quella di alcuni celebri eroi del mito. Questo gli consente da un lato di fare sfoggio di erudizione e di arricchire la trama poetica, dall’altro gli permette di conferire dignità e nobiltà alle sofferenze sperimentate a Tomi (sofferenze di tutti i tipi, dal rischio di morte per le incursioni di popolazioni barbariche ai disagi di un clima molto duro e di una natura sterile e improduttiva). Ecco che in particolare le figure di Telefo e di Filottete, entrambi legati alla spedizione dei Greci contro Troia, entrambi feriti che però trovarono successivamente la guarigione, si prestavano alla perfezione a rappresentare la situazione di Ovidio relegato come ‘ferito’ che anela al perdono di Augusto, quanto meno a un alleggerimento della pena (guarigione). Ecco che la figura di Ulisse, con i tanti mala che dovette fronteggiare, si prestava bene a istituire un confronto dettagliato con i mala sperimentati dal poeta a Tomi (un confronto da cui emerge come ogni sofferenza di Ulisse trovi corrispondenza in una ben maggiore sofferenza di Ovidio). Ecco che analogamente si poteva istituire un preciso raffronto con le fatiche di Giasone, da cui trarre uguali conclusioni. Ecco che, soprattutto, la figura di Atteone che, per aver visto involontariamente Diana nuda, fu trasformato in cervo sbranato dai suoi cani, consentiva un’assimilazione perfetta al dramma di Ovidio colpevole di involontario error e non di volontario scelus allorché – intorno all’8 d. C. – si trovò a vedere qualcosa che non avrebbe dovuto vedere.


Carlo Di Giovine si è laureato all’Università ‘La Sapienza’ di Roma, allievo di Scevola Mariotti. Dal 2001 è professore ordinario di Lingua e letteratura latina presso l’Università degli Studi della Basilicata. Si è occupato prevalentemente di poesia latina, con edizioni critiche delle poesie di Floro (II secolo d. C.) e del Technopaegnion di Ausonio (IV secolo d. C.). Si è interessato ripetutamente di poesia epigrammatica, studiando in particolare Marziale e gli epigrammi dell’Anthologia Latina.



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